lunedì 16 agosto 2010

L'asilo del fumo. (Parte seconda)

Lo stesso fumo ( o quasi) gli stessi sogni e le stesse fantasie, le ricordo la sera del 17 ottobre 1997, cinque anni dopo.

Ero maggiorenne da una settimana (per i belpassesi affezionati al sacro, era l’ottava), i miei genitori in viaggio, dunque senza problemi di orario.

In una casa della IX traversa a levante, ancora una volta su sedili improvvisati, un cerchio.
Questa volta non siamo ragazzi, siamo compagni. Nell’aria c’è un’incosciente elettricità. Quella notte, il Collettivo politico Area, circolo esclusivissimo e quasi coincidente con il Partito della rifondazione comunista, occuperà la struttura devastata dell’asilo nido. Logo del gruppuscolo, stampato sull’unico volantino A5 di rivendicazione, un uovo in un portauovo minacciato da un cucchiaino. La fantasia può portare male, cantava il poeta modenese.
L’obiettivo è ambizioso ed ha anche valenza simbolica. Progettato e realizzato nella seconda metà degli anni settanta, l’asilo avrebbe dovuto accogliere (in teoria) molti di noi. Vent’anni dopo sembrava giusto risarcimento appropriarsene, per denunciarne il degrado e destinarlo a spazio di socialità giovanile. Le amministrazioni democristiane si succedevano senza apparentemente interessarsene, il nodo di collusioni e responsabilità troppo difficile da sciogliere. In più, dettaglio non da poco per pericolosi sovversivi dell’ultrasinistra locale, si vociferava insistentemente di una destinazione della struttura alla Misericordia.
Ulteriori indagini su cosa fosse e come si potesse realizzare questa socialità non vi furono, ma “scarpe rotte e pur bisogna andar”. Andammo. Una variante della sporca dozzina. Con noi un dirigente del partito, un compagno adulto, che ci avrebbe indicato il cammino.
Non ho molti ricordi di come arrivammo sul posto, ma sono quasi sicuro che andammo a piedi. Il nostro equipaggiamento consisteva di pinze, tenaglie, attrezzi vari che sarebbero serviti alla posa di una recinzione e alla sostituzione delle serrature con chiavi del popolo.
Questo il paradosso. Un’occupazione, in genere, prevede una violazione. Nel nostro caso la struttura era ampiamente violata, quindi avevamo il problema opposto. Non servivano cesoie per tagliare una recinzione, ma fil di ferro, rete metallica e tenaglie per ripristinarla. Non è un dettaglio insignificante come si vedrà dopo.
Mentre si procedeva, silenziosamente (più o meno), alla segreta manovra, pur ben illuminati dai lampioni della strada che nel frattempo era stata aperta perpendicolarmente a Via delle scuole medie e davanti a decine e decine di balconi dei palazzi di fronte, due fari nella notte spensero il nostro progetto.
Da una Fiat Uno, due carabinieri in borghese vistosamente distolti da altre occupazioni visti i loro abiti festaioli, intimarono il più banale dei “fermi tutti!”
Toni e facce, a molti note per posti di blocco e sequestri di motorini avvenuti in passato, sarebbero bastati, ma uno dei militi pensò bene di sottolineare l’ordine arma in pugno.
Assai vicini al prolasso intestinale, quasi ipnotizzati, deponemmo le armi (pinze, tenaglie) rimettendoci alle decisioni della Benemerita.
Nessuno guardò l’ora, quindi nessuno potrà smentirmi se scrivo che la gloriosa impresa si risolse in venti minuti. In realtà forse qualcuno l’orologio lo guardò (se lo vide) mentre la colonna si incamminava sotto un fitta pioggerellina verso la caserma. Il compagno anziano, forse memore di ben altre imprese, fu l’unico a incamminarsi in direzione opposta. Il seme della rivolta era salvo.
In fila indiana, seguiti dalle forze della controrivoluzione in macchina, riuscimmo a far sganciare un compagno poco desideroso di rivedere la caserma dei carabinieri e da nove, tornammo dieci piccoli indiani quando uno dei militi si unì a noi per scongiurare altre fughe.
Da Via delle scuole medie passammo per la XX Traversa (la più breve di tutte), poi dentro la Villa Comunale dove sfilammo sotto gli occhi increduli dei compagni che presidiavano i pochi stand della festa dell’Unità che era iniziata da qualche ora . Poi da lì, dopo brevi e fallimentari tentativi di resistenza passiva, conditi dalla bestemmia di un compagno (l’unico che avrà un capo di imputazione in più), passando per la Silva, arrivammo in caserma.
Il verbale ci contestava occupazione, danneggiamenti, resistenza a pubblico ufficiale.
In molti mesi di inutili firme e vani incontri in caserma, non si riuscì nemmeno a rinviarci a giudizio. Difficile contestare a chi andava per riparare l’intento di danneggiare.
I danni erano altri e non li avevamo fatti noi.
Quella sera, in caserma, eravamo tutti senza documenti, appresi il significato della parola sedicente.


Io ero il sedicente Giuseppe Piana. 

sabato 14 agosto 2010

L'asilo del fumo. (Parte prima)

La notizia era di quelle destinate a deteriorare la soglia dell’attenzione in classe per le restanti tre ore. Durante la ricreazione uno di terza parlò a noi di seconda (quelle differenze anagrafiche di pochi mesi che all’epoca delle medie contavano decenni) di un luogo quasi mitologico.
L’immagine che materializzarono le sue parole era quella di un fortino abbandonato, di facile conquista, colmo dei tesori a noi più cari: il fascino del proibito e il desiderio di avventura.
Con un fittissimo scambio di bigliettini che il nemico, l’assai miope professoressa di lettere, non intercettò, si decise un primo sopralluogo al suono della campanella.
Avevo già notato la meta della nostra esplorazione. Ai margini della strada che percorrevo ogni giorno, a venti metri dalla scuola. Una struttura bassa, di un piano, bianca, con le pareti scrostate e una decorazione di sottili linee parallele dipinte sulla facciata, finestre senza vetri, cancelli inesistenti, una vegetazione selvaggia intorno.
Al suono della campanella, saltando l’immancabile tappa al botteghino per comprare caramelle e gelatine dai colori improbabili e facendoci largo tra le auto ordinatamente imbottigliate, raggiungemmo quello che era, era stato, l’asilo nido. 
Anni dopo avrei saputo che non era mai entrato in funzione, quindi sarebbe più corretto dire quello che avrebbe potuto essere l’asilo nido del paese.
Eravamo in cinque, sei con la nostra guida, il ragazzo di terza già esperto del luogo. L’emozione si sciolse nella delusione.
 Il sole entrava netto dalle finestre divelte del prospetto sud. Il pavimento era interamente coperto da cocci di vetro che scricchiolavano sotto le scarpe. 
Varcato l’ingresso, attenti a non tagliarsi con il ferro arrugginito del portoncino, si entrava direttamente in una stanza enorme su cui si aprivano, allineate, molte porte. Porte che erano variamente decorate: scritte all’uniposca, buchi di calci, pugni, pietrate, piccole e grandi bruciature.
La guida si dedicò con perizia, seguito da due di noi, al tiro al bersaglio verso la lastra di vetro superstite di una finestra. Il rumore dei cocci infranti rimbombava nel vuoto assoluto del camerone. 
Anche le altre stanze avevano il pavimento vetrato, grossi buchi nei muri, tubi dell’impianto idraulico staccati, lavandini e water ridotti in pezzi, plafoniere penzolanti dal soffitto. Ovunque macerie, spazzatura. Un gatto morto rendeva inavvicinabile uno dei bagni con i water minuscoli, lasciati lì da chi non avrebbe saputo cosa farsene. Tutto il resto era stato diligentemente estirpato e portato via.
L’assalto all’asilo nido fu una delusione. Niente di diverso da ciò che si trovava abbondantemente nelle case di campagna e nelle masserie devastate che già praticavamo.
Continuammo a frequentarlo. Gli appassionati del genere si dedicavano coscienziosamente alla demolizione: fionde, pallonate, piccoli incendi esaltavano la loro opera, altri vi creavano nascondigli per il bottino di furtarelli scolastici o di fumetti che era meglio non portare a casa. Infine arrivarono i pacchetti da dieci di Merit e il luogo assunse i connotati del fumoir. In una classe, la più sgombra e meno cadente, creavamo un cerchio di sedili improvvisati e una dopo l’altra fumavamo, con boccate goffe e caricaturali (che non ci impedivano poi di vomitare) tutte le sigarette di un pacchetto comprato con i soldi di una colletta.
Ci sentivamo grandi, le nuvolette azzurrine, i cerchietti e le prodezze di chi già aspirava, il fumo che saturava la stanza, impregnava i nostri sogni e le nostre fantasie [...]