sabato 14 agosto 2010

L'asilo del fumo. (Parte prima)

La notizia era di quelle destinate a deteriorare la soglia dell’attenzione in classe per le restanti tre ore. Durante la ricreazione uno di terza parlò a noi di seconda (quelle differenze anagrafiche di pochi mesi che all’epoca delle medie contavano decenni) di un luogo quasi mitologico.
L’immagine che materializzarono le sue parole era quella di un fortino abbandonato, di facile conquista, colmo dei tesori a noi più cari: il fascino del proibito e il desiderio di avventura.
Con un fittissimo scambio di bigliettini che il nemico, l’assai miope professoressa di lettere, non intercettò, si decise un primo sopralluogo al suono della campanella.
Avevo già notato la meta della nostra esplorazione. Ai margini della strada che percorrevo ogni giorno, a venti metri dalla scuola. Una struttura bassa, di un piano, bianca, con le pareti scrostate e una decorazione di sottili linee parallele dipinte sulla facciata, finestre senza vetri, cancelli inesistenti, una vegetazione selvaggia intorno.
Al suono della campanella, saltando l’immancabile tappa al botteghino per comprare caramelle e gelatine dai colori improbabili e facendoci largo tra le auto ordinatamente imbottigliate, raggiungemmo quello che era, era stato, l’asilo nido. 
Anni dopo avrei saputo che non era mai entrato in funzione, quindi sarebbe più corretto dire quello che avrebbe potuto essere l’asilo nido del paese.
Eravamo in cinque, sei con la nostra guida, il ragazzo di terza già esperto del luogo. L’emozione si sciolse nella delusione.
 Il sole entrava netto dalle finestre divelte del prospetto sud. Il pavimento era interamente coperto da cocci di vetro che scricchiolavano sotto le scarpe. 
Varcato l’ingresso, attenti a non tagliarsi con il ferro arrugginito del portoncino, si entrava direttamente in una stanza enorme su cui si aprivano, allineate, molte porte. Porte che erano variamente decorate: scritte all’uniposca, buchi di calci, pugni, pietrate, piccole e grandi bruciature.
La guida si dedicò con perizia, seguito da due di noi, al tiro al bersaglio verso la lastra di vetro superstite di una finestra. Il rumore dei cocci infranti rimbombava nel vuoto assoluto del camerone. 
Anche le altre stanze avevano il pavimento vetrato, grossi buchi nei muri, tubi dell’impianto idraulico staccati, lavandini e water ridotti in pezzi, plafoniere penzolanti dal soffitto. Ovunque macerie, spazzatura. Un gatto morto rendeva inavvicinabile uno dei bagni con i water minuscoli, lasciati lì da chi non avrebbe saputo cosa farsene. Tutto il resto era stato diligentemente estirpato e portato via.
L’assalto all’asilo nido fu una delusione. Niente di diverso da ciò che si trovava abbondantemente nelle case di campagna e nelle masserie devastate che già praticavamo.
Continuammo a frequentarlo. Gli appassionati del genere si dedicavano coscienziosamente alla demolizione: fionde, pallonate, piccoli incendi esaltavano la loro opera, altri vi creavano nascondigli per il bottino di furtarelli scolastici o di fumetti che era meglio non portare a casa. Infine arrivarono i pacchetti da dieci di Merit e il luogo assunse i connotati del fumoir. In una classe, la più sgombra e meno cadente, creavamo un cerchio di sedili improvvisati e una dopo l’altra fumavamo, con boccate goffe e caricaturali (che non ci impedivano poi di vomitare) tutte le sigarette di un pacchetto comprato con i soldi di una colletta.
Ci sentivamo grandi, le nuvolette azzurrine, i cerchietti e le prodezze di chi già aspirava, il fumo che saturava la stanza, impregnava i nostri sogni e le nostre fantasie [...]

Nessun commento:

Posta un commento