Ben prima che Zeman incantasse
con la sua filosofia tattica, a Belpasso il gioco del calcio era già totale.
In quell’epoca in cui il
pistacchio era solo un gusto di gelato (di cui diffidare se il colore virava
troppo al verde Kawasaki) e Totò Schillaci secondo solo a S. Lucia quanto a
numero di devoti, i nostri pomeriggi, fatta la tara ai compiti (non sempre né
per tutti) erano interamente dedicati al gioco, dunque per l’assenza di altri
diversivi domestici oltre la televisione, alla strada.
Principe dei giochi, senza timore
di banalizzazione, era il pallone.
Novantanove volte su cento il
virus si contraeva in età scolare e si saldava al tifo. Così insieme a un
cognome, ci si trovava costretti ad avere anche una squadra da tifare.
All'epoca dei fatti si ignorava
senza alcuna vergogna l’esistenza del calcio Catania, quasi tutti i bambini
di mia conoscenza dividevano i loro favori tra le blasonatissime Juve Milan Inter.
Maradona rendeva tifabile il Napoli.
Vicende mitologiche mai del tutto chiarite portavano alcuni a interessarsi del Como (un anonimo santantonese), della Fiorentina, del Cesena, della Roma (con questi ultimi compagni di fede mantengo ancora la fratellanza).
Maradona rendeva tifabile il Napoli.
Vicende mitologiche mai del tutto chiarite portavano alcuni a interessarsi del Como (un anonimo santantonese), della Fiorentina, del Cesena, della Roma (con questi ultimi compagni di fede mantengo ancora la fratellanza).
Il tifo si concretizzava, prima
ancora che nell’imitazione atletica dei campioni, nel non meno aerobico gioco
delle figurine, naturalmente Panini, da collezionare e non sia mai scambiare, piuttosto da usare come posta al gioco da’ ciuscia,
che genitori e nonni chiamavano puspra.
Non ho mai saputo, e come tanti
porterò il segreto oltre tempo massimo, per quale motivo il verbo designato per
indicare la vincita fosse pulicare, o
le origini di quel regolamento non scritto che prevedeva ciusciati, manati e sauti
a’ buffa.
Di sicuro il ricordo,
indissolubilmente saldato al terrore di vedersi sequestrato il bottino da insegnanti, educatori e catechisti vari, mi intenerisce ancora.
Superato il primo biennio delle
elementari, durante il quale si era esercitata l’arte del pulicare su tutte le superfici praticabili, diventava più semplice
ottenere il permesso per uscire in strada già nel primissimo pomeriggio. O per
sentirsi meno in colpa se si evadeva dai domiciliari causa compiti.
A onor del vero il pallone era
solo una delle discipline ammesse, certo la prediletta, ma necessitava appunto
di un pallone e non sempre si poteva contare su un Super Tele o affini.
In ogni caso nascondino,
stregacomandacolore, sciancateddu erano palliativi per tossici in crisi d’astinenza,
tentativi di coinvolgere anche il sesso femminile o diversivi per temporeggiare
un po’ e non turbare, troppo, la quiete pomeridiana do' menziornu e le relative pennichelle di lavoratori turnisti o
anziani, uno il temibilissimo u’Vecchiu, munito
di coltello o chiodo, si distinse per aver inviato nel paradiso dei palloni
numerosissimi esemplari.
Rette e traverse, per lo meno
fino alla VI (quasi l’intero quartiere S. Antonio di levante e di ponente), data
l’ancor scarsa pendenza, pullulavano di goleador.
Altri campetti improvvisati, più
o meno stabili, si realizzavano nelle campagne adiacenti (bastavano poche
decine di metri allora, prima che la città crescesse) con pratiche linee
laterali in basalto lavico e porte di lapazze,
le assi sottratte ai cantieri edili, nella cui costruzione si cimentava con
indiscutibile maestria Turi Dance, incontrastato maestro della carpenteria
ludica.
Il tempo dei campetti in erba
sintetica, del calcio a cinque o a sette era ipotetico e fantascientifico, e
l’appuntamento ufficiale più importante era il torneo comunale che si teneva
sulle mattonelle di cemento di Piazza Duomo, con pendenza assai poco
regolamentare, opportunamente ingabbiata dalle reti di protezione. Si trattava
di un torneo tra quartieri, se non ricordo male, il cui contorno di zuffe e
scommesse clandestine, non favoriva la presenza di bambini, comunque numerosissima
e attiva nel recupero palloni.
Ma si giocava un po’ dovunque:
nel parcheggio interno delle scuole medie, prima e dopo la sirena di entrata e
uscita, a ridosso della sua palestra in un’indegna pietraia; nelle vicinanze
del botteghino in cui si riequilibravano con scarpette, banane, fragoline
sintetiche gli zuccheri persi.
E ancora, nelle poco trafficate
strade della Silva; ovunque al Campo fiera, al collegio Sava (i più grandi
d’età e i fortunati) dove la disciplina, per via del fondo sabbioso tendeva al
beach soccer; in piazza Duomo davanti alla scuola o dentro il cortile della
scuola elementare Plesso Centro oppure, trasferta temibilissima, in Via
Capuana.
Per confronti numericamente
significativi c’era sempre il vecchio e assai malandato S. Gaetano, le cui
porte sempre spalancate evitavano la fatica e il riscaldamento di scavalcarne
le recinzioni e nei cui spogliatoi campeggiava l’ormai leggendaria scritta: “Cu rumpi pava e cu tumma a’ vo’ pigghia”,
riferita ai danni da pagare e ai palloni da recuperare.
Campi di quartiere e incroci
erano terreni di gioco a rigida compartimentazione territoriale, in cui
cicciottelli con serie dipendenze da gelati e merendine (me medesimo tra i
tanti) facevano da cornice a talenti purissimi che in non pochi casi accedevano
alle giovanili locali o ai prestigiosi vivai di Giarre e Acireale.
Il club cui immeritatamente ero iscritto aveva come terreno di gioco
l’asfalto ad angolo tra la III Traversa
e la I Retta
Levante, con rarissime incursioni sulla I Ponente, dove però si formava un
rinomato laghetto lungo dieci metri e largo tre e che dunque riservavamo alle
discipline acquatiche.
Il gioco era assai evoluto e non
solo per un miope occhialuto di posizione come me.
Oltre alla variante comune della
“porta romana”, un portiere unico privo di qualsiasi talento che non fosse lo
spirito di sopravvivenza, che veniva usato per lo più come palo mobile e contro
cui giocavano due squadre; l’elitario calcio tennis, destinato ai piedi fini o
un gioco a eliminazione, sempre a porta unica, in cui si poteva calciare solo
di prima, detto a’ vvolu.
Una certa appetibilità avevano le
vie i cui incroci erano dotati dall’Acquedotto Bosco Etneo di fontanelle, quasi
mai a secco, dispensatrici di ristoro gratuito.
Anni dopo l’alimentari a cento metri avrebbe iniziato a vendere un liquido quasi salato detto ghetorei, ma la rispettabilità della fontana restò intatta.
Anni dopo l’alimentari a cento metri avrebbe iniziato a vendere un liquido quasi salato detto ghetorei, ma la rispettabilità della fontana restò intatta.
La nostra fontanella era a suo
modo unica.
In primis perché sovrastata dai
rami di un grande e generoso (lui sì, la signora Lucia padrona dell’orto un po’
meno) fico; poi perché tra gli avventori che venivano ad approvvigionarsi di
acqua ricca in vanadio e sali minerali, c’era niente poco di meno che Gilommu, figura quasi mitologica del
pantheon belpassese, illusionista errante, che tutti chiamavano mago, capace di
estrarre dalle nostre narici penne, cucchiaini, palle pazze.
All’arrivo del suo Mercedes l’
“alt gioco” era obbligatorio. Il gioco sospeso come quando passava
una macchina o se ne schiantava una nei pressi dopo frenata e botto e si
correva a vedere l’effetto che fa.
Con Gilommu, in un istante, da piccoli giocatori ci trasformavamo in
piccoli giocati, dalla sua bravura, dalla sua barba biblica, dai suoi occhi
felici di distribuire a noi, quasi e quasi tutti innocenti, meraviglia.
Quando la primavera iniziava a
farci presagire l’estate, e già Giannini(*cfr. Commenti) e Bennato facevano da colonna sonora
alle nostre partitelle in attesa delle notti magiche, la fontanella integrava
la sua funzione primaria, trasformandosi in doccia, unico rimedio alla calura
insieme agli indimenticabili gelati di don Paolo, gelataio itinerante
automunito, che preannunciava con radio al massimo volume e fischietto fuori
ordinanza il suo arrivo.
“Sono stato il primo, come la Ferrero ”, si leggeva sulle
fiancate del suo furgoncino.
Coni o briosce farcite, panna,
pochi gusti, sempre un po’annacquati.
Tutti con lo stesso sapore.
Il buonissimo.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine e la natura per avermi dato occhi migliori dei piedi)
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine e la natura per avermi dato occhi migliori dei piedi)