"Ringrazio qui, ancor prima di iniziare, tutti quelli che a vario titolo hanno contribuito rispondendo alle telefonate moleste di chi ha voluto sfruculiare la loro memoria.
Grazie allora ad Ascenzio, Carla, Alfio, Felice, Rina, Ottavio, Gianni, Cettina, Luciano, Turi, Nino, Gaetano, Pippo, Giusi, Lucio, Mimmo e a tutti quelli, vivi o non più tra noi, che fecero vivere a Belpasso una lunghissima stagione di impegno e passione."
Sei anni fa, avevo iniziato questo viulinu con i ringraziamenti.
Tra loro, Turi, mio papà, era stato il primo a raccontarmi, quando ancora ero un bambino, la storia del Controcarro, una di mille mirabolanti avventure.
Oggi è tra quelli non più tra noi, e questa sarà un'altra S. Lucia senza di lui.
Ovunque sia, possa arrivargli questo ringraziamento. E un mio bacio.
Con questo post inauguro una breve serie di viulini dedicati a fatti o persone che
non ho conosciuto direttamente, ma dal racconto dei testimoni o dei
protagonisti.
Nelle mie intenzioni iniziali avrei voluto limitarmi a delle
interviste, singole o collettive, ma come spesso accade, i racconti, specie
quelli che riguardano la memoria di fatti passati, vivono presto di vita
propria, scegliendo le forme d’espressione a loro più congeniali.
È questo il caso di controcarro.
Qualche anno fa, durante i festeggiamenti di S. Lucia,
qualcuno mi parlò di un carro talmente fuori dagli schemi canonici, talmente
scandaloso e di “rottura” della tradizione consolidata, da meritarsi la
definizione di “controcarro”.
Da una assai parziale e poco approfondita ricerca per ricostruire i contorni di
quella vicenda, è nato questo viulinu, diverso dagli altri anche per il
tentativo di tracciare una modesta ricostruzione storica.
Di telefonata in telefonata, di ricordo in ricordo (spesso
curiosamente in contraddizione tra loro) alcuni dei protagonisti e altri
spettatori mi hanno restituito una storia, che nelle mie intenzioni avrebbe
dovuto trattare di una notte del 12 dicembre del 1972 e che, invece, ha finito
per trascinare dentro il Concilio Vaticano II e la questione giovanile, il
Cristianesimo sociale e l’impegno politico, il ’68 e la contestazione.
Ringrazio qui, ancor prima di iniziare, tutti quelli che a
vario titolo hanno contribuito rispondendo alle telefonate moleste di chi ha
voluto sfruculiare la loro memoria.
Grazie allora ad Ascenzio, Carla, Alfio, Felice, Rina,
Ottavio, Gianni, Cettina, Luciano, Turi, Nino, Gaetano, Pippo, Giusi, Lucio,
Mimmo e a tutti quelli, vivi o non più tra noi, che fecero vivere a Belpasso
una lunghissima stagione di impegno e passione.
Già sulle origini del controcarro si potrebbe aprire un
dibattito.
C’è chi pensa che la scintilla fu il progressivo dilatarsi
degli effetti del Concilio Vaticano II e l’apertura mentale e di consapevolezza
di alcuni sacerdoti “illuminati” (padre Signorelli, padre Cosentino, padre
Vasta, padre Arena); chi il vento del ’68, che soffiava già forte da contrade
lontane; chi la tragica fine di Milena Sutter e il lungo e acceso dibattito
sulla condizione dei marginali e dei giovani che ne conseguì.
Per questo e per molto altro ancora, i giovani cantanti del
quartiere Purgatorio si presentarono in piazza, la sera del 12 dicembre 1972,
con un carro che poco o nulla aveva di carro.
Parallelepipedi e cubi di diverso colore (scatoloni e casce, nella percezione spietata e scettica di qualche spettatore chiamato a
rendere testimonianza) pochi personaggi (secondo altri nessuno), scene
essenziali e “impressioniste”, struttura ridotta all’osso, con "pochissima
attenzione per la meccanica" e per lo sviluppo in quadri successivi.
I temi erano molto lontani da quelli classici della
rievocazione della vita e del martirio della vergine siracusana, tutti invece
protesi all’attualità: alla fame e alla miseria che ancora affliggevano le
genti del mondo vicino e lontano; alle condizioni di sfruttamento
neocolonialista; all’enorme sbilanciamento tra le condizioni di vita dei paesi
ricchi e il dramma quotidiano di quelli poveri.
Denuncia e richiami a impegnarsi in prima persona a
sporcarsi le mani.
Nessuna “spaccata” gloriosa, nessun trionfo di giochi di
luci a sottolineare l’ascesa di Santa Lucia.
Le reazioni della piazza, già provata dal consueto clima
ghiacciato della vigilia, furono (a voler esser benevoli nel riportarle) di
scetticismo, forse anche di scandalo, tuttavia non ci fu molto tempo per
rendersene pienamente conto. Le cateratte del cielo si aprirono generosamente,
impedendo perfino l’apertura del carro successivo, quello del quartiere San
Rocco, mettendo in fuga gli spettatori.
A detta dei maligni, il Sommo Architetto mandò sulle terre che furono dei
Moncada l’inverno più piovoso che si ricordi, sicuramente nel tentativo di
replicare in piccolo il diluvio biblico, forse per annegare la supponenza di
quei giovani figli di Eva.
E per esser sicuri di estirpare la mala pianta, dicono,
piovve fino a marzo.
Sbaglierebbe però chi dovesse liquidare (per restare nella metafora idrica) il progetto e l’apertura di quel carro come un momento isolato e di “rottura”, volto solo a suscitare scandalo e chiacchiere fini a se stesse, che certo non mancarono nel paese della forficia.
Quel carro, il controcarro, volendo concentrarsi solo su una
delle sue declinazioni, quella di denuncia e di protesta verso un sistema già
tutto teso al profitto e contro un cattolicesimo statico e di “maniera”,
rappresentò invece uno dei momenti, forse meno ricordati, ma di indubbio
impatto, di un movimento, piccolo e spontaneo, via via sempre più esteso e
organizzato.
Forse fu proprio quella rivoluzione conciliare che stava
dirompendo dentro la chiesa dei fedeli, almeno quanto dentro la Curia, cui si
aggiunsero le nuove istanze identitarie giovanili e la sensibilità politica e
culturale nuova della prima generazione uscita dal Dopoguerra.
La prima generazione a conoscere il benessere e il
superfluo, non si dimentichi che a Belpasso le strade(e non tutte) avevano
scoperto l’asfalto da pochi anni.
Tanto contarono quei preti già ricordati, “un clero coraggioso e di
avanguardia, nonostante l’età anagrafica non lo lasciasse sperare”, talmente
contagiati dal nuovo corso da aprire le canoniche e le parrocchie a momenti di
incontro e di confronto, spesso dialettico.
Sono anni in cui la messa stessa, il momento di massima
espressione di una comunità parrocchiale, viene strappata alle rassicuranti
note di cori e organi e affidata alle chitarre e ai bassi elettrici, alle
batterie e alle tastiere di quelli che diedero vita, a S. Antonio e al
Purgatorio, alle cosiddette messe beat, negli stessi anni in cui Radio Vaticana
era l’unica emittente a passare Dio è
morto di Guccini, censurata dalla Rai perché ritenuta blasfema.
Assai fecondo è l’incontro con le realtà vicine e affini. Mani tese, nata nel 1964 per combattere
la fame e gli squilibri tra Nord e Sud del mondo; altre comunità catanesi, il Clan dei ragazzi di padre Aresco; il gruppo di padre
Gliozzo, mentore e padre non solo spirituale di molte idee.
Da questi scambi nacquero le raccolte porta a porta di abiti
usati, carta e cartone, stracci.
Sono storie di uomini e di macchine: un piccolo autocarro
blu forse un Fiat 615, espropriato (o concesso chissà) al padre di uno dei
ragazzi, finì arruolato alla causa; alcune presse da fieno di un verde pallido
furono messe in opera per l’assemblaggio delle balle di stracci e carta nella
casa di padre Sanfilippo alle spalle dell’abside della chiesa Madre, a pochi
passi dalla sede scout del reparto Etna; una Fiat 1100 familiare cooptata per
ottimizzare la logistica del gruppo.
Ma la storia si compone di grandi e piccole trame.
Se il contesto e il brodo di coltura in cui era nato
l’embrione di quell’esperienza era nazionale e addirittura mondiale, più in
piccolo sono gli incontri, anche casuali, e le amicizie, il collante principale
di tanti progetti.
Proprio a ridosso del 1968, per esempio, l’apertura dei
seminari consentì ad alcuni degli studenti belpassesi avviati alla tonaca, di
frequentare da esterni il liceo classico Spedalieri di Catania.
La storia tende a riprodurre i suoi meccanismi con una certa
autoironia.
E così, come migliaia di anni prima, Adamo riconobbe Eva, la tanto sospirata
mela diventò un frutto di tentazione e l’uscita dal seminario per molti potè dirsi
completa.
L’arcidiocesi catanese piange ancora qualche prete mancato (chissà), in compenso la comunità locale si fregia di musicisti, psicanalisti e professionisti di indiscussa fama.
L’arcidiocesi catanese piange ancora qualche prete mancato (chissà), in compenso la comunità locale si fregia di musicisti, psicanalisti e professionisti di indiscussa fama.
Nonostante un tessuto sociale da piccolo paese (Belpasso è ancora abbondantemente sotto i quindicimila abitanti), molto condizionato dalle
appartenenze di quartiere, con bassa dinamicità tra i gruppi, si crea rapidamente
una comitiva trasversale rispetto agli interessi e alla topografia.
Contribuiscono amicizie comuni, tragitti in autobus o sulla Circumetnea per
raggiungere le scuole superiori, ormai di massa; perfino l’acquisto di una
marca da bollo nella tabaccheria di fronte l’allora bar Recupero di Via Roma,
sarà galeotta.
Le iniziative che si occupavano in modo differente di
povertà, fame, lebbrosi, costituirono per mesi il fulcro intorno a cui nacquero
amicizie e relazioni indissolubili e, per gemmazione, altri progetti.
Il ’72 è l’anno del controcarro, certo, ma anche della
mostra fotografica allestita, sempre per sensibilizzare e raccogliere fondi per
i poveri tanto a cuore a Raoul Follereau, nei locali della Coldiretti di Via
Roma.
Soprattutto, è l’anno
di Passio ’72, un recital che da
Belpasso si propagò prima ai paesi vicini, ricordata unanimemente è la tappa di
Zafferana, poi in tournée per la Sicilia: Ragusa, Modica, Scicli. Un testo che
rivisitava in musica la passione di Gesù Cristo, già ripensata dal Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo
Pasolini otto anni prima, tutto declinato sulle parole e le vicende degli
umili, dei poveri, “sulla sostanza delle cose, più che sulla loro forma”,
sull’uomo Cristo e sul Cristo uomo.
Un Cristo, assai barbuto e in nero, che per sopportare
l’amaro supplizio di una lunghissima crocifissione, appena mitigato dalle
risate suscitate dalle dizioni non proprio pulite di alcune interpreti, durante
la finzione scenica ricorreva a sottilissimi fili di nylon per sostenere le
braccia esauste, prima del liberatorio: “È morto, è morto!” con le o apertissime e
strascicate della parlata paternese.
Altri progetti, altre idee seguirono.
Altri arrivi, in quella che inizialmente fu una piccola cellula e che col tempo divenne un gruppo,
sempre più aperto e ampio, che attraversò, contribuendovi in maniera tangibile, una delle stagioni più interessanti e produttive del microcosmo, spesso
asfittico, di Belpasso.
E quando proprio non si poteva portare qualcosa in paese, allora si partiva, come la volta in cui, contagiati dallo spirito olimpico e assistiti dalla buona sorte, quei prodi raggiunsero Monaco per le Olimpiadi.
E quando proprio non si poteva portare qualcosa in paese, allora si partiva, come la volta in cui, contagiati dallo spirito olimpico e assistiti dalla buona sorte, quei prodi raggiunsero Monaco per le Olimpiadi.
Nel 1973 una parte del gruppo diede vita a “Belpasso”, una
rivista di discreta tiratura e di altrettanto successo. Nel 1981, alle soglie
di quell’ampio fenomeno che in tutta Italia rappresentò il rientro nella
dimensione del privato e, spesso, del disimpegno, che prese il nome di riflusso,
nacque L’amico club, che raccoglieva
in sodalizio tutto il gruppo di partenza, cui si aggiunsero tanti amici e curiosi. Club
che continuò a distinguersi per anni nella promozione della cultura, dell’arte,
della socialità.
Alcune collaborazioni divennero amicizie, altre, unioni ,matrimoni
e, negli anni, figli.
Uno di questi sono io.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)